I monumenti, oltre a rappresentare un’attrazione turistica, costituiscono un’estensione dell’identità cittadina, diventando, con il passare del tempo, punti d’orientamento e preferiti luoghi d’incontro. Per quanto a Catanzaro esistono vari monumenti la città si identifica con il Cavatore.
Collocato, in Piazza Matteotti, in una nicchia del castello Normanno costellata di massi, il Cavatore si presenta con corporatura muscolosa, piedi scalzi e piccone in mano nell’atto di colpire la roccia da dove sgorga acqua. E’ il simbolo del lavoro. E’ il simbolo della tenacia dei catanzaresi. A realizzarlo, tra il 1951 e il 1954, fu l’arch. Giuseppe Rito (1907-1965), catanzarese di adozione. L’inaugurazione della monumentale fontana avvenne nel febbraio 1956. Poi, nel 1970, con il crollo di un tratto del muro di cinta del castello, l’opera bronzea fu trasferita nelle gallerie di Villa Trieste dove vi rimase per ben tredici anni prima di tornare alla sua collocazione originaria.
In quegli anni non mancarono le proteste dei cittadini che non avevano dimenticato il Cavatore e che non tolleravano di saperlo buttato in una grotta “dei cento metri”.
Quel gigante di bronzo ha rappresentato in passato e rappresenta ancora oggi un importante punto di riferimento non soltanto per i catanzaresi. “Ci vediamo al Cavatore” è un modo di dire sempre in voga. Un tempo quando due o più persone provenienti dai paesi limitrofi, giunti assieme in città per disbrigo di pratiche, erano soliti restare d’accordo così: Quandu finimu ni vidimu duva chiddhu ccu picu. Quando ci sbrighiamo ci vediamo dove c’è quello col piccone.
Per saperne di più sull’abile scultore che lo realizzò riportiamo di seguito il bel ricordo di Luigi Marsico, il quale ben conosceva l’architetto Rito. Lo scritto è tratto dal libro “Fatti ed uomini di Catanzaro”, stampato dalla Tipografia L’Ardita di Orlando Marullo nel 1965.
Ricordo di Giuseppe Rito
Lo scultore Giuseppe Rito fu un mio carissimo amico, la morte lo stroncò nella piena maturità, quando stava esprimendo il meglio della sua opera di artista: parlare, ora, di lui e delle sue cose, per me, è un dovere ed uno sfogo dell’anima insieme.
Non ricordo in quale circostanza conobbi Giuseppe Rito; ricordo soltanto di essermi incontrato con lui, la prima volta, in Catanzaro, nell’immediato dopo guerra. Era il tempo in cui l’Italia, prostrata da una lotta infausta e micidiale, rimarginava lentamente le sue ferite e tornava, a quando a quando, alla vita: rientravano dai campi di prigionia e dei luoghi di combattimento i soldati con i volti scavati dalle sofferenze, in questo periodo Giuseppe Rito fece la sua apparizione a Catanzaro.
Basso di statura, scarno con le gote infossate, gli occhi mobili e il crine intonso, sembrava anche lui un reduce, e non era. Aveva, sì, vissuto gli orrori della guerra, aveva anche lui sofferto privazioni, ma non aveva combattuto; era stato a Milano, a Firenze, vicino ad artisti rinomati e portava con sé, in fatto di arte, un notevole bagaglio di idee e di esperienze.
In Catanzaro Giuseppe Rito fisso la sua dimora. Per opera di un magistrato colto e intelligente, di grande sensibilità e di larghe vedute, in tempi in cui avere un bugigattolo ove ripararsi o lavorare significava possedere un bene inestimabile, a Giuseppe Rito fu concesso, in uso temporaneo, al piano terra del Palazzo di Giustizia, un piccolo ambiente che adibì a studio.
Lo ricordo ancora, in quella specie di antro, in camice grigio, con il basco in testa e la stecca tra le mani, lavorare la creta quasi con rabbia; ivi videro la luce molte delle sue sculture più note come il gruppo <<Giustizia e Libertà>> che abbellisce lo scalone del nostro Palazzo di Giustizia, il Cavatore, la ormai celebre fontana di Piazza Matteotti, il busto monumentale del poeta cosentino Ciardullo, il cui riso sardonico affiorante sulle labbra faceva indovinare il temperamento dell’uomo ed il genere della sua poesia, la Madonna Assunta, che, posta sulla più alta guglia del nostro Duomo, domina la città; ivi furono plasmati i busti di Pascoli pensoso e di Corrado Alvaro aggrondato, busti che si trovano nelle due omonime scuole di Catanzaro e di Chiaravalle Centrale.
Giuseppe Rito era un lavoratore infaticabile e metodico: con puntualità quasi militaresca, ogni giorno, era al suo posto; lavorava dietro commissione, ma (l’arte non sempre da pane), il più delle volte, modellava al fine di soddisfare se stesso, per un intimo bisogno di esprimersi, per quella sua volontà di tradurre nella creta la vita che egli concepiva dura ed amara. Venivano così alla luce alcune sue sculture, belle ed interessanti perché spontanee, come “La Tempesta”, “I deportati”, “Contadino ubriaco”, “Maternità” ed altre. Non so che fine abbiano fatto, ma ho ancora davanti agli occhi “La tempesta”, espressa in un uomo che avanza faticosamente con gli abiti ed il mantello investiti dalla furia del vento e con il braccio destro proteso davanti agli occhi per difendersi dalle raffiche della pioggia; e difficilmente potrò dimenticare il gruppo “I deportati“, una fila di condannati, in casacca di ergastolani, con la testa rapata, curvi e legati ad una sola catena, in cammino verso un crudele destino. Il nome di Rito, intanto, aveva varcato l’ambito ristretto della provincia, giornalisti e critici si interessavano della sua arte, si parlava di lui su giornale riviste; per brevità ricordo soltanto l’articolo che Domenico Zappone scrisse su di lui nella pagina letteraria del “Tempo” e quando apparve sulla “Tribuna Illustrata” e “L’illustrazione del Popolo.”
Il nome di Rito, dopo il ‘50, cominciava ad avere anche risonanza nazionale: le mostre da lui fatti in grandi centri quali Roma e Milano furono presentate la personalità note nel campo delle lettere e dell’arte come Corrado Alvaro e Leonida Repaci, fu anche invitato ad esporre alla biennale di Venezia ed egli partecipò a tale Mostra riportando consensi e lodi.
La Biennale di Venezia fu per Giuseppe Rito il riconoscimento, in campo nazionale, del suo valore di artista; ma qualche anno più tardi egli fece, in una delle più note galleria di Parigi, una mostra che ebbe una lusinghiera accoglienza.
Ricordo i suoi occhi lucidi di gioia, quando, ritornato a Catanzaro, mi mostrava e mi faceva leggere in diversi ritagli di giornali, quello che i critici d’arte francesi avevano scritto di lui.
Diventava anche popolare Giuseppe Rito; non c’era artista, letterato, o personalità, che, venendo a Catanzaro, non lo richiedesse, non cercasse la sua compagnia, giusto riconoscimento al suo valore ed alla sua operosità.
Negli ultimi anni della sua attività Giuseppe Rito sentì il bisogno di svecchiare la sua arte, di dare vita a qualche cosa di nuovo: era sazio di scolpire secondo gli schemi comuni e le regole tradizionali, vagheggiava una scultura non stilizzata, indefinita nei particolari, ma potente nelle linee generali, espressiva nell’insieme, tale, in altre parole, da suscitare nell’osservatore il fantasma, l’idea di ciò che voleva significare. Diede vita, e certamente fu il primo alla “scultura rigata”, a quel genere di scultura che, se al principio suscitò sorpresa e diffidenza, ebbe, poi, successo e si affermò nella sua ultima mostra romana ed in quella di Parigi. Ricordo di tal genere di scultura “La Parigina” e una “Maternità” di cui egli volle farmi omaggio, ma non ricordo il nome di tanti altri gruppi e busti che, negli atteggiamenti più diversi, affollavano l’angusto studio del Rione Strató, dove, da tempo si era trasferito.
Giuseppe Rito era infaticabile: idee e fantasmi battevano di continuo alla sua mente chiedendo di avere vita nella creta.
Lui, di solito chiuso e taciturno, lui che “mugugnava” come felicemente ebbe a dire Domenico Zappone, a volte, nel corso di qualche riunione conviviale a due, mi apriva l’animo, si sfogava e mi parlava di sé; mi diceva dei suoi proponimenti, dei suoi progetti futuri, della mostra che doveva fare a New York e dalla quale si andava preparando scrupolosamente, mi diceva delle tante cose che voleva esprimere e realizzare. Ma venne la “Signora vestita di nulla” che “tutto che tocca trasforma”, gli disse che bisognava lasciare ogni cosa e gli fece cenno di andare. Aveva davvero molte cose da esprimere ancora Giuseppe Rito, aveva davvero tanti fantasmi a cui dare vita, non gli fu concesso. Tuttavia egli fece ed operò tanto che ricordo di lui rimarrà ancora nel tempo.